Ludovico Massa, operaio metalmeccanico, è una sorta di campione del cottimo. Dopo un incidente sul lavoro però si schiera contro quel meccanismo, d'accordo con un gruppo di estremisti extraparlamentari e contro i sindacati
Affrontare i grandi temi del lavoro, del sindacato, della partecipazione e della rappresentanza ricorrendo al linguaggio universale del cinema. Con Cinema & Lavoro vogliamo proporre non solo titoli da guardare e gustare, da soli o in compagnia, ma anche offrire spunti di riflessione rinunciando agli schemi della formazione accademica.
Ludovico Massa, per gli amici Lulù, operaio in una fabbrica metalmeccanica, è una sorta di campione del cottimo. Benvoluto dal padrone, che adegua al suo rendimento quello degli altri operai, non è troppo ben visto dai compagni di lavoro. Ma, nemmeno Lulù è contento di se stesso: produce, consuma, ma si ammazza di fatica, tanto da non aver più nemmeno la forza di avere rapporti con la donna con cui vive. Lulù continua a lavorare con i suoi ritmi massacranti finché un giorno, al tornio, rimette un dito. Completamente cambiato, si schiera contro il meccanismo del cottimo, sostenendo, d'accordo con un gruppo di estremisti extraparlamentari e contrario ai sindacati, la necessità di uno sciopero a oltranza. Scoppiano tafferugli con la polizia e Lulù viene licenziato in tronco e, solo grazie grazie all'intervento dei sindacati, sarà riassunto. Ma ormai è anch'egli alle soglie della pazzia e sogna di un muro da abbattere oltre il quale c'è il paradiso della classe operaia.
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Lulù Massa è un campione del cottimo con cui mantiene due famiglie,
finché un incidente gli fa perdere un dito. Da ultracottimista passa a
ultracontestatore, perde il posto e l'amante, si ritrova solo. Grazie a
una vittoria del sindacato, è riassunto e torna alla catena di
montaggio. Con qualche cedimento di gusto, più di una forzatura e
rischiose impennate nel cielo dell'allegoria, è un aguzzo e satirico
ritratto della condizione operaia e della sua alienazione. Scritto da
Petri con Ugo Pirro, è il 1° film italiano che entra in fabbrica,
analizzandone il sistema e mettendone a fuoco con smania furibonda i
vari aspetti, compresi i rapporti tra uomo e macchina, tra sindacato e
nuova sinistra, tra contestazione studentesca e lotte operaie,
repressione padronale e progresso tecnologico. Un Volonté memorabile,
una bizzarra Melato, un incisivo Randone. Suscitò molte polemiche, anche
e soprattutto a sinistra. Palma d'oro a Cannes ex aequo con Il caso
Mattei .
(Il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandini
).
Il lavoro in fabbrica è stato quasi sempre
considerato dai cineasti privo di potenzialità drammaturgiche, indegno
sia come oggetto, sia come soggetto di messinscena: soltanto in quanto
ridotto a mito o agiografia ha popolato gli schermi cinematografici e
gli immaginari collettivi. Nell'epoca dello spettacolo generalizzato
l'autentica realtà della fatica quotidiana, dell'ingiustizia sociale,
dello sfruttamento, resta nascosta, perché coloro che possiedono gli
strumenti per produrre spettacolo manipolano la verità in modo da
evitare nel pubblico inquietudine, sdegno, riflessione critica. D'altra
parte, spesso per motivi aziendali la cine-video-camera non ha avuto (e
non ha) neppure accesso ai luoghi di lavoro: ad esempio Elio Petri poté
girare La classe operaia va in paradiso in una fabbrica soltanto perché essa gli venne offerta, a Novara, dagli operai che la stavano occupando dopo il fallimento.
D’altra parte negli anni Sessanta e Settanta spesso i filmaker impegnati
nelle battaglie politiche e culturali a fianco della classe operaia
pensavano che non fosse affatto necessario entrare con la cinepresa
dentro la fabbrica perché l'intera città era di per sé scenario di
fabbrica: il lavoro lo si respirava nell'aria grigia, nel rumore dei
tram che passavano, nelle colonne di piccole utilitarie in coda per
andare allo stadio. È questo, in sostanza, il discorso fatto da Elio
Petri e dallo sceneggiatore Ugo Pirro in La classe operaia va in paradiso:
la fabbrica è una prigione da cui il proletario non può uscire mai,
nemmeno quando va a casa a dormire, nemmeno quando sciopera e protesta.
Gli resta soltanto il sogno di abbattere il muro che rinchiude l'umanità
in un'unica globalizzante fabbrica repressiva.
La comparsa ne La classe operaia va in paradiso della figura
dell’operaio inserito nel meccanismo dello sfruttamento sollevò molte
polemiche in Italia, dopo il Sessantotto della “contestazione
studentesca” ed il Sessantanove delle lotte operaie. Critici
cinematografici ed esponenti del mondo della cultura e della politica
espressero considerazioni e giudizi sul film prendendo in considerazione
soltanto il suo aspetto politico-ideologico-sindacale, ma ignorando
qualsiasi riflessione sul suo linguaggio e sulla sua struttura
drammaturgia. Non pochi “intellettuali di sinistra” accusarono Petri e
Pirro di aver “falsificato” l’immagine dell’operaio protagonista, in
quanto gli avevano attribuito caratteristiche psicologiche, caratteriali
ed esistenziali che solitamente nella narrazione cinematografica
vengono ritenute patrimonio di personaggi borghesi, avevano sorvolato
sulle dinamiche ideologiche del suo ambiente, avevano negato l’esistenza
di una coscienza sociale, avevano ignorato la funzione attiva in questo
campo dei sindacati, del Partito Comunista e delle avanguardie operaie,
e addirittura avevano sciolto in battute ed in risvolti comici alcune
problematiche importanti.
Indubbiamente il film rappresenta la realtà contraddittoria di un
personaggio il quale, per riconquistare la dignità che quotidianamente
gli viene sottratta in fabbrica, prima cerca di appropriarsi dei simboli
del decoro piccolo borghese e accetta di ridursi a semplice ingranaggio
del ciclo produzione-consumo, poi attua una ribellione sterile in
quanto individualista. Il film stesso non nasconde le proprie interne
contraddizioni, anzi le denuncia apertamente in modo problematico. «Elio
Petri s’è guardato da un’opposizione schematica tra capitalisti e
lavoratori. Sa che il problema è più accidentato e tocca i diversi
strati della vita associata. […] E non si creda che Petri prenda per il
bavero i soli “gauchistes”, la sua affettuosa ironia colpisce tutti,
compreso lo sventurato e innocente Lulù» (P. Bianchi, “Il
Giorno”,18.9.1971).
«La classe operaia va in paradiso […] in verità non mi piace affatto. In Classe operaia
mi piace molto il personaggio della parrucchiera, e la fabbrica. Non mi
piacciono né gli studenti, né i sindacalisti, né il manicomio. In
manicomio c’è Salvo Randone: grande attore. Però il manicomio è così
falso e superfluo nell’economia della storia, che il personaggio di
Salvo Randone non riesce a prendere consistenza. […] La classe operaia
è un film peno di qualità intelligenti, ma strabordante e in definitiva
confuso. La confusione non è soltanto nella mente del protagonista e
nei problemi insolubili che lo assediano. La confusione e il disordine
stanno nascosti nella struttura del film. La confusione non può essere
raccontata in un linguaggio confuso. Essa deve essere raccontata con
l’esattezza della concisione. Ho l’impressione che il regista Elio Petri
abbia sempre delle intuizioni assai felici nell’inventare le persone,
le case dove abitano e i luoghi dove lavorano, ma dopo averle inventate
non sa cosa fare e vi intreccia intorno trame logore e superflue. […] In
Classe operaia sono assai pesanti gli errori, le superfluità, i
momenti morti. Mi chiedo cosa resterebbe di una storia così
strabordante, sovraffollata e confusa, se non ci fossero a tenerla
insieme le mascelle e la faccia di Gian Maria Volontè» (N. Ginzburg, “La
Stampa”, 15.5.1972).
«Su riviste politicizzate come “Ombre rosse” e “Cinema nuovo” l'accusa principale è la spettacolarizzazione. Un film come La classe operaia va in paradiso
mette in scena una rapporto storico di dominio utilizzando i caratteri
della commedia nazionale, dello spettacolo compromesso con il Capitale.
Se ciò può essere legittimo per certi fenomeni sociali che si prestano a
essere denunciati attraverso le griglie del genere [...], la cosa non è
più valida di fronte alla natura del problema politico trattato in La classe operaia va in paradiso.
La comicità e la caratterizzazione spettacolare sono subito condannate
in nome di una maggiore necessità di realismo e di adesione ai moduli
del cinema documentario e diretto. In ogni caso, l'accusa di
superficialità spettacolare ed emotiva è, tra le più presenti. [...]
Inoltre manca completamente un'analisi di classe adeguata: i film
politici italiani degli anni Settanta sono considerati quasi sempre non
autenticamente marxisti, in quanto in essi gli apparati di repressione
di Stato vengono descritti come male transitorio, senza il sospetto che
rappresentino l'essenza stessa del capitalismo. Petri è accusato di non
provare interesse per la coscienza di classe ma solo per il problema
generico dell'alienazione (Lulù Massa, l'operaio protagonista di La classe operaia va in paradiso, è talmente stupido che non arriva al livello della coscienza tout court,
rispetto al quale il problema della coscienza di classe è secondario).
Anche gli strumenti interpretativi vengono giudicati molto confusi: un
mix di Kafka, Freud e filosofia esistenzialista che porta a una analisi
di tipo qualunquista» (C. Bisoni, “Close Up” n. 23, dicembre 2007-marzo
2008).
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è un progetto curato da Marco Nundini e Danny Marchi per CISL FP Verona. Per informazioni o contatti su questa iniziativa: cinemaelavoro@cislfpverona.it. Marchi e nomi commerciali citati sono di proprietà delle relative aziende.
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