CISL FP Verona. La ricetta Cisl per il riassetto dei servizi sociosanitari territoriali.


La “ricetta Cisl” è stata presentata il 22 giugno al convegno “Sanità e servizi sociosanitari - Quali servizi e con quale personale?”, che si è tenuto a Padova e ha visto la partecipazione oltre 200 delegati CISL Fp e Fnp da tutta la regione, cioè i maggiori rappresentanti degli operatori e degli utenti dei servizi sociosanitari. Oltre ai delegati e operatori sindacali dei territori veneti della Cisl FP regionale, era presente anche Maurizio Petriccioli, Segretario Nazionale CISL FP.

Un convegno all’insegna del pragmatismo: con le dichiarate difficoltà a mettere a terra tutti i progetti del PNRR, e con l’intersecarsi di più normative, cosa si può concretamente fare per garantire ancora un sistema sociosanitario pubblico e universale? Una risposta, come detto, è proprio quella di far rientrare la riforma delle RSA all’interno della riforma più complessiva che riguarda la messa in opera del PNRR (con il DM77 e il DDL Anziani) e la riforma degli ambiti territoriali del sociale e del socio sanitario (ATS).

Le tre grandi partite che si stanno giocando in Veneto sul fronte sociosanitario sono:
  • la messa a terra del PNRR, cioè al momento del DM77 (approvato a maggio 2022, missione 6 - Salute) che riordina i servizi sociosanitari territoriali, e nei prossimi mesi arriveranno anche i decreti attuativi del DDL Anziani (approvato a marzo 2023, missione 5 - Inclusione e coesione), che prevede voci specifiche per la prevenzione e la gestione della non autosufficienza degli anziani:
  • la riforma regionale degli ATS, col pdl 200/2023 ora in V Commissione a Palazzo Ferro Fini;
  • l’annosa questione della riforma delle Ipab che ormai deve rientrare nella più complessiva riforma delle RSA, di cui tutti riconoscono la necessità, ma nessuno ancora ci ha messo seriamente mano.
«Le RSA, con il loro numero e con la loro distribuzione, possono diventare strategiche nella riorganizzazione dei servizi sociosanitari territoriali stabilita dal PNRR che, dal canto suo, conferisce agli ATS un ruolo centrale per la governance del sociale. Ecco perché queste tre partite vanno affrontate con una visione di insieme: noi ce l’abbiamo, ed è quella di aprire le RSA al territorio. Ci sarebbero enormi vantaggi per tutti: utenti, operatori, enti locali. Invece la Regione continua a tenere separati i temi: il grande rischio è vedere scritte solo norme di “maquillage” amministrativo-gestionale, e non di effettiva erogazione dei servizi», affermano Marj Pallaro
e Tina Cupani, segretarie generali rispettivamente di CISL Fp e Fnp Veneto.

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Con le risorse del PNRR viene rafforzata e finanziata (solo le strutture, non il personale) la sanità
territoriale tramite il potenziamento dei Distretti in un’ottica di prossimità, e anche di spinta alla casa come primo luogo di cura. Attraverso la riforma regionale degli ATS si procede a una revisione del sistema di governance del sistema sociosanitario e socioassistenziale con un livello sovracomunale, dando ancora come riferimento l’ambito territoriale di Distretto. E le RSA? In Veneto sono 347, di cui 330 “operative”, metà a gestione pubblica e metà a gestione privata: i dipendenti complessivi sono oltre 31mila, con il dato da non sottovalutare che le strutture pubbliche hanno esternalizzato metà degli operatori. Hanno complessivamente 34mila posti letto, e una recente ricerca della Fnp Veneto ha calcolato che entro il 2042 dovranno esserne attivati altri 10.700 per garantire la stessa proporzione di oggi di 17% anziani non autosufficienti assistiti in struttura e 83% in casa. Sono generalmente ben disseminate nel territorio, ma
fanno riferimento essenzialmente al Comune di insistenza, con specifico e proprio Consiglio di
Amministrazione (e relativi costi gestionali), e in generale hanno una certa difficoltà ad aprirsi al territorio.

Cosa vogliamo cambiare
«Noi vogliamo cambiare proprio questo, per valorizzare la straordinaria prossimità di queste strutture con una contemporanea valorizzazione anche di chi ci lavora dentro», continuano Pallaro e Cupani: «immaginiamo di includere finalmente in modo formale le RSA fra gli erogatori di servizi territoriali, con una efficace razionalizzazione anche dei servizi di tipo amministrativo di carattere comune e con un rilancio e ampliamento delle attività “core business”». Ecco quindi che in un centro servizio “messo in rete” possono coabitare Centri Diurni, Ospedali di Comunità («oggi insufficienti con il problema delle dimissioni protette non rispettate che sta diventando un dramma», precisano le segretarie), Case di Comunità, servizi di riabilitazione. Ma possono diventare anche punto di riferimento per tutto quel mondo del volontariato che si occupa di sociale. Possono diventare, insomma, delle vere “case della salute”.


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Quali sono i vantaggi di questa visione?
  • Una gestione unificata dell’intero sistema sociosanitario assistenziale che includa una volta per tutte le RSA porta subito benefici sull’intero sistema di welfare di comunità data la capillarità dei servizi e la garanzia di coordinazione e coerenza “dall’alto” (da Regione a Ulss a Distretto);
  • la razionalizzazione dei costi gestionali aiuterebbe l’abbassamento delle rette: un posto in RSA costa in media 21.900 all’anno compresa l’impegnativa di residenzialità (senza, è il doppio). Con la capacità reddituale attuale, due terzi dei pensionati non possono permettersi una casa di riposo: devono attingere ai risparmi o all’aiuto dei familiari;
  • la valorizzazione del personale applicando il CCNL Sanità pubblica a tutti gli operatori contribuirebbe a rendere di nuovo appetibile questo lavoro e a dare un motivo per chi già c’è di restarci.
Già, perché tutte le riorganizzazioni e i servizi restano belle parole scritte, se non ci sono persone ad attivarle. «In Veneto con il Covid abbiamo stabilizzato praticamente tutto il personale», concludono Pallaro e Cupani: «Il problema ora è dare pari diritti a tutti gli operatori, superando contratti che non sono dignitosi, per evitare quel che sta succedendo: la corsa al posto pubblico per condizioni lavorative migliori, lasciando scoperte molte strutture, o addirittura il cambio mestiere. Fare l’infermiere o fare l’operatore sociosanitario (ne mancano rispettivamente 8mila e 3mila in regione) non è più appetibile se non si danno adeguati riconoscimenti economici e concrete prospettive di crescita professionale».

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